QUOTIDIANO FONDATO NEL 1994

“Nel nuovo album torno a impegnarmi. E dedico un brano a Totti”

Intervista di Simona Orlando - Il Messaggero

Le latitanze di Daniele Silvestri non sono mai vere assenze. Prima o poi torna da dove è stato raccontando il vissuto e l’osservato. In Acrobati del 2016 predicava il funambolismo per sentirsi leggeri con visioni aeree, nel disco appena uscito “La terra sotto i piedi” cerca invece radici e gravità: «Avevo uno sguardo più poetico che politico, poi è tornata la voglia di sporcarmi mani e piedi. Oggi prevale la necessità di cose concrete, non dico immutabili, quantomeno ferme, che non abbiano la durata di un tweet».

Daniele Silvestri, 25 anni di carriera: tutti i dischi della sua storia musicale

Occhi e cuore puntati sulle solidità che ci mancano, a ritmo di elettronica, rap a modo suo (quello di “Le cose in comune” per intenderci), e ballate come “Prima che”, ancora lì ad arrovellarsi su caducità e convalescenze dell’amore. Tutto da riportare nel tour dei palasport che il 25 e 26 ottobre parte da Roma. Il cantautore capitolino, 50 anni, 25 di carriera, incastona quattordici canzoni nate sull’isola di Favignana con la Magical Mystery Band (ospiti strumentali Niccolò Fabi e James Senese) e lì c’è tutta la sua cifra cioè quel saper passare con disinvoltura dai massimi sistemi ai minimi dettagli, poggiare contenuti profondi su basi allegre e giocare con le parole. Perché l’ironia è una cosa seria.

È un Silvestri al tempo dei social, tra scenario desolante e speranza resistente?

«Nel disco, a livello quantitativo, c’è più amarezza che luminosità ma il manifesto programmatico è “Qualcosa cambia”, essendo io un inguaribile ottimista. Per una malattia conclamata come l’indifferenza esistono anticorpi e vederli è già una guarigione».

Quali anticorpi vede?

«Penso al movimento ecologista guidato dalla sedicenne Greta, a Simone di Torre Maura che da solo fronteggia Casa Pound. Il battibecco cui siamo abituati non ha giustamente presa sui ragazzini, non muove le coscienze e la partecipazione critica, anzi spinge a posizioni bieche e preoccupanti. Veniamo da un ventennio, per usare una brutta parola, in cui c’è stato un allontanamento dal sentimento di indignazione, coinciso con la scarsa possibilità di sentirsi rappresentati da bandiere e battaglie. Mi sembra stia per tornare. Magari su temi legati al territorio e al futuro del pianeta».

In “Qualcosa cambia” la sua voce ricorda Lucio Dalla. Continua ad essere un faro?

«Sempre, è pura libertà creativa. Mentre la riascoltavo, mi sono detto: “Ma qui ho fatto Dalla! Lo tolgo”, invece l’ho tenuto, in fondo è lui che mi ha acceso la fantasia musicale».

Cos’è che deve cambiare?

«Mezzo pianeta si muove secondo leggi di mercato e va restituita un’idea di società che ha l’ambizione di migliorarsi, usando parole antiche come etica e valori. Le nuove generazioni forse non lo sanno, ma probabilmente è ciò che cercano».

In “Blitz Gerontoiatrico” critica trapper e rapper che fanno apologia di trash e cash. Hanno risposto al suo dissing?

Macché, sono troppo anziano per meritarlo e loro sono abituati a frasi ben più forti. Trap e rap stilisticamente mi piacciono, ma spesso è stata un’occasione persa per via di un micidiale appiattimento dei testi. Lo sforzo di ascoltare questi ragazzi però produce sempre un risultato. È un gesto d’amore implicitamente richiesto e illuminante. Una piccola ricetta per gli adulti».

Con quest’urgenza è nata “Argentovivo” portata al Festival di Sanremo con Rancore. Dopo l’esibizione cosa è successo?

«Si è aperto un vaso di Pandora di problemi e soluzioni, tentativi di ripensare la famiglia, la scuola, l’approccio a patologie dell’adolescenza. Sono stato bombardato da richieste di aiuto e di dialogo. Il mio sito sarà un centro di smistamento di queste storie. E’ un seme che ha germogliato in un attimo e dà più soddisfazioni dei premi».

“Scusate se non piango”, dove i Blues Brothers sembrano incontrare Edoardo Bennato e spuntano cori bandabardozziani, ha un video girato all’Angelo Mai di Roma. Perché quel posto?

«È un luogo di incontro e di cultura, sempre a rischio sgombero. E’ uscito un minikolossal con un cast di attori e musicisti che nemmeno Monicelli ai bei tempi. C’è Lillo coreografo di una quadriglia country e Giorgio Testi alla regia con Valerio Mastandrea, il quale, vista la fatica fatta, poi mi ha bloccato su Whatsapp».

Il testo sembra evocare Il bacio a Vancouver, quella foto di una giovane coppia che si bacia fra i tafferugli. Il brano voleva immortalare l’amore nel finimondo?

«Possiamo parlare di tutto, delle derive politiche, culturali, sociali, ma alla fine è sempre l’amore il motore. Più che retorica, è la verità».

Ha firmato il manifesto Artisti per Riace. Pianificate un concerto?

«Presto passeremo all’azione con un concerto per la sua importante idea di accoglienza».

La musica è ancora rilevante in questi casi?

«Avverto la sensazione di non rilevanza ma non è un motivo per non farlo. Vogliamo esprimere dolore per l’interruzione di quell’esperienza e sostenere chi sta lì o vorrebbe tornarci. Vale comunque la pena e qui parla l’inguaribile ottimista».

La chicca del disco è “La vita splendida del Capitano” dedicata a Totti. Cosa l’ha spinta a scriverla?

«Per pudore non la volevo inserire ma ci fu l’eclatante giorno dell’abbandono di Francesco con mezzo popolo incollato alla tv e molti non erano né romanisti né appassionati di calcio. C’era dentro qualcosa di semplice e diretto, non di pacchiano e epico, che raccontava il momento della vita in cui ognuno di noi diventa grande o prende atto di un cambiamento. Un sentimento universale, per questo piangevamo tutti, pure mio figlio di tre anni».

Totti l’ha sentito?

«No, non ho un contatto diretto con lui. Ce l’ho con De Rossi, altro capitano al quale potrei dedicare una canzone».

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